L’immunoterapia in oncologia rappresenta una rivoluzione: pazienti che solo fino a poco tempo fa venivano considerati intrattabili oggi grazie ai farmaci che “risvegliano” il sistema immunitario hanno beneficiato di sorprendenti remissioni. Tuttavia, l’immunoterapia non è efficace su tutti. Anzi funziona solo su pochissimi e qualche giorno fa un uno studio dell'Università della California San Francisco (UCSF) ne ha rivelato la motivazione: le cellule tumorali riescono a “impacchettare” e nascondere la proteina PD-L1, nota per la sua capacità di rendere le cellule “invisibili” al sistema immunitario. Si tratta di un meccanismo che segna un cambio di paradigma nella lotta al cancro e alla cui scoperta, pubblicata sulla rivista Cell, ha contribuito uno giovane scienziato italiano che lavora negli Usa, Mauro Poggio.
“Abbiamo identificato un fenomeno sorprendente che potrebbe spiegare perché molti tumori non rispondono ai farmaci immunoterapici e questo ci suggerisce nuovi approcci che possono migliorare i risultati per i pazienti con tumori resistenti all’immunoterapia”, riferisce Poggio. Sappiamo da tempo che nel tessuto tumorale PD-L1 funziona come un “mantello dell'invisibilità”: localizzando il PD-L1 sulla superficie delle cellule tumorali, i tumori si proteggono dagli attacchi del sistema immunitario. Alcune delle immunoterapie di maggior successo agiscono interferendo con PD-L1 o con il suo recettore, PD-1, che risiede sulle cellule immunitarie. Quando l’interazione tra PD-L1 e PD-1 viene bloccata, i tumori perdono la capacità di nascondersi dal sistema immunitario e diventare vulnerabili agli attacchi immunitari anti-cancro. Fino ad ora, gli scienziati hanno ragionevolmente presunto che i tumori che non rispondono ai bloccanti di PD-L1 non debbano produrre PD-L1 per qualche ragione, il che significa che non esiste da nessuna parte la possibilità di trattare questi pazienti. Alcuni ritengono che alcuni tumori potrebbero essere protetti da qualche altra proteina non ancora scoperta.
Il cancro è un nemico molto “furbo”. Anche quando subisce un duro colpo può avere in serbo strategie molto ingegnose per continuare a sopravvivere e ritornare ad attaccare. In altre parole può recidivare. Qualcosa che succede molto spesso nei casi di leucemia mieloide acuta (AML), nonostante il trapianto di midollo da donatore rappresenti una delle terapie più efficaci per curare la malattia. A svelare le strategie che le cellule leucemiche usano per continuare a sopravvivere, nonostante l’azione antitumorale del sistema immunitario trasferito dal donatore, è stato un gruppo di ricercatori dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, sostenuto dall’Associazione italiana per la ricerca sul cancro e dal ministero della Salute. I risultati sono stati pubblicati in due articoli su Nature Medicine e Nature Communications e potrebbero avere implicazioni dirette per il trattamento clinico delle recidive nell’AML.
L’attività antitumorale del trapianto di midollo origina in larga misura dalla non totale compatibilità tra il sistema immunitario del donatore e le cellule tumorali del paziente. Questa reciproca incompatibilità, pur parziale, è segnalata dalla presenza di diverse classi di molecole, chiamate HLA, sulla superficie di queste cellule. Questa diversità facilita il lavoro dei linfociti T trapiantati nel riconoscere il tumore come un elemento estraneo, da attaccare ed eliminare. Ma c’è qualcosa che succede quando il tumore recidiva: in questa situazione le cellule del sistema immunitario trapiantato non sembrano in grado di riconoscere il tumore e agire di conseguenza. Già nel 2009, gli stessi ricercatori del San Raffaele avevano trovato una parte della risposta. A volte a salvare le cellule leucemiche è una mutazione genetica nel DNA, che cambia le molecole HLA presenti sulla loro superficie e le rende più simili, e quindi invisibili, alle cellule del sistema immunitario trapiantato. Una scoperta che ha già influenzato la pratica clinica: quando ciò accade i medici sanno che si deve ricorrere a un secondo trapianto di midollo, da un donatore diverso dal primo. Tuttavia, questa modifica genetica non spiega tutte le recidive che si osservano.
“Diciannove anni fa Christopher Reeve, che aveva letto i miei studi sulla riprogrammazione delle cellule neurali, mi chiamò per chiedermi quali speranze ci fossero di utilizzare questo approccio per riparare le lesioni del midollo. Il celebre attore che interpretò Spiderman mi ha esortato a proseguire su questa strada e aveva ragione”. Angelo Vescovi, direttore scientifico di Revert Onlus e dell’Ospedale Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo, ricorda con affetto quella telefonata. Reeve, paraplegico a causa di una caduta da cavallo, aveva già intuito che le idee di Vescovi, per quanto rivoluzionarie e visionarie all’epoca, avrebbero potuto un giorno dare a una speranza alle persone che oggi sono costrette a vivere su una sedia a rotelle. Vescovi, infatti, insieme a un altro ricercatore, Fabrizio Gelain, sono riusciti a creare una sorta di nanoprotesi nervosa in grado di “riparare” le lesioni spinali. I dettagli del lavoro sono stati pubblicati sulla rivista PNAS.
I ricercatori del Center for Nanomedicine and Tissue Engineering dell’IRCCS Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo, insieme all'ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda di Milano, l’Università di Milano Bicocca e le Associazioni No profit per la ricerca e la cura delle malattie degenerative Revert Onlus, hanno realizzato in laboratorio un nuovo tessuto nervoso umano in grado di rigenerare le lesioni del midollo spinale. “La nostra nanoprotesi è composta da piccoli frammenti di proteine, chiamate peptidi auto-assemblanti, e cellule staminali neurali”, spiega Gelain. “E’ un tessuto ‘ibrido’ di natura biologica che, trapiantato in modelli animali, si è dimostrato in grado di creare un ‘ponte’ nella sede della lesione. Abbiamo ottenuto così - continua - un miglioramento dell’attecchimento del trapianto rispetto alle tecniche precedenti, una rigenerazione del tessuto midollare e un recupero delle funzioni motorie”. In pratica, la neuroprotesi, fatta maturare in laboratorio e successivamente trapiantata in lesioni al midollo spinale, incrementa la rigenerazione nervosa. Gli animali con lesione al midollo su cui è stata testata hanno risposto bene al trapianto, dimostrando anche un miglioramento significativo della capacità motoria.
Marco Sguaitzer, Gianluca Signorini, Stefano Borgonovo. Sono alcuni dei nomi più celebri nel mondo del calcio, non solo per il loro talento, ma per il triste destino che li accomuna: la Sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Un male oscuro e incurabile che causa la degenerazione progressiva del motoneurone centrale e periferico, con un decorso del tutto imprevedibile, ma con esiti disastrosi per la qualità di vita oltre che sulla sopravvivenza. Per anni si è sospettato e temuto un possibile collegamento con il calcio. Ora sembra essere diventata una certezza: nel calcio professionistico di SLA ci si ammala di più e molto prima. A dimostrarlo è un approfondito studio epidemiologico condotto da Ettore Beghi e da Elisabetta Pupillo, entrambi ricercatori dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS, in collaborazione con l’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Novara e con l’Istituto Superiore di Sanità, che verrà presentato il messe prossimo a Filadelfia al meeting annuale dell’American Academy of Neurology.
La ricerca è partita dall’esame dei nominativi dei calciatori presenti nelle collezioni di figurine Panini, a partire dalla stagione 1959-1960 fino a quella del 1999-2000, in cui risultavano coinvolti 23.875 calciatori di Serie A, B e C, seguiti fino al 2018 dai ricercatori dell’Istituto Mario Negri. Nel periodo considerato dallo studio sono stati accertati 32 casi di SLA. I più colpiti risultano essere i centrocampisti: 14. Più del doppio degli attaccanti: 6. Mentre i difensori sono stati 9 e i portieri 3. “Ciò che la nostra ricerca conferma è che il rischio di SLA tra gli ex-calciatori è circa 2 volte superiore a quello della popolazione generale”, spiega Beghi. “Analizzando la Serie A, il rischio sale addirittura di 6 volte, ma la vera novità consiste nell’aver evidenziato che i calciatori si ammalano di SLA in età più giovane rispetto a chi non ha praticato il calcio. L’insorgenza della malattia tra i calciatori si attesta sui 43,3 anni mentre quella della popolazione generale in Italia è di 65,2 anni”, aggiunge.
Per scongiurare la temuta “apocalisse antibiotica”", quel tragico scenario dominato da “superbatteri” resistenti ai farmaci, si stanno sviluppando nuove soluzioni e tecnologie. Come la speciale “cuffia” che avvolge pacemaker e defibrillatori impiantabili capace di rilasciare antibiotici. Si tratta di un dispositivo che si è dimostrato in grado di ridurre significativamente le infezioni associate agli interventi chirurgici, che in alcune categorie di pazienti calano anche del 90 per cento. Un risultato eccezionale presentato in contemporanea al congresso dell’American College of Cardiology a New Orleans e pubblicato sul New England Journal of Medicine.
Lo studio che ne ha dimostrato le potenzialità ha coinvolto 256 ospedali e 776 cardiologi in Usa, Europa (Italia compresa), Asia e Nuova Zelanda. E' durato tre anni ed è statosvolto su 7mila pazienti, divisi in due bracci: nel primo i dispositivi erano stati impiantati con modalità tradizionali, nel secondo con la protesi avvolta dalla speciale “cuffia”, la membrana TyRx, che rilascia in maniera costante per circa sette-dieci giorni due antibiotici, rifampicina e minociclina. La “cuffia” viene poi assorbita in circa nove settimane. Ebbene, la percentuale di infezioni batteriche è stata abbattuta al 61 per cento se si conteggiano anche i pazienti a bassissimo rischio infettivo, ma è arrivata fino al 90 per cento per quei pazienti che per condizioni cliniche e altre cause hanno invece un rischio alto.
L’herpes labiale potrebbe non essere semplicemente un fastidioso disturbo che si presenta periodicamente e ripetutamente nel corso della vita. Quelle fastidiose vescicole che caratterizzano questa comune infezione, infatti, potrebbero essere collegate alla comparsa di patologie neurodegenerative, come il morbo d’Alzheimer. Uno studio dell’Università Sapienza di Roma, nei laboratori affiliati all’Istituto Pasteur Italia, in collaborazione con l’Istituto di Farmacologia traslazionale del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) di Roma, l’Università Cattolica-Fondazione Policlinico A. Gemelli IRCCS di Roma e l’IRCCS San Raffaele Pisana, ha dimostrato per a prima volta che le numerose recidive dell'infezione possono creare danni a carico del cervello. I risultati, pubblicati sulla rivista PLoS Pathogens, hanno aggiunto un importante tassello al filone di ricerca che da anni punta a chiarire il ruolo degli agenti microbici nell’insorgenza delle malattie neurodegenerative.
In quest’ultimo studio i ricercatori hanno dimostrato, nei topi, che riattivazioni ripetute del virus inducono la comparsa e l’accumulo nel cervello di biomarcatori di neurodegenerazione tipici della malattia di Alzheimer, quali il peptide beta-amiloide (principale componente delle placche senili), la proteina tau iperfosforilata (che forma grovigli neurofibrillari) e neuroinfiammazione. L’accumulo di questi biomarcatori molecolari di malattia si accompagna a deficit cognitivi che diventano irreversibili con l’aumentare del numero delle riattivazioni virali. “Le recidive delle ben note vescicole sono dovute al fatto che il virus si annida, in forma latente, in alcune cellule nervose situate fuori dal cervello”, spiega Anna Teresa Palamara del Dipartimento di Sanità pubblica e malattie infettive della Sapienza e coordinatrice dello studio. “In seguito a diverse condizioni di stress (quali ad esempio infezioni concomitanti, calo delle difese immunitarie, esposizione a radiazioni ultraviolette, ecc.) il virus si riattiva, va incontro a replicazione e successiva diffusione alla regione periorale. In alcuni soggetti – aggiunge Palamara – il virus riattivato può raggiungere anche il cervello producendo in quella sede danni che tendono ad accumularsi nel tempo”.
Il trapianto è una lotta contro il tempo. I minuti sono contati e il rischio che gli organi diventino inutilizzabili è sempre molto alto. Specialmente quando si tratta dei polmoni, che sono tra gli organi più delicati, oltre a essere i primi a deteriorarsi quando il cuore del potenziale donatore smette di fumare. Normalmente i polmoni possono resistere 6-8 ore in attesa di essere trapiantati. Ma grazie a un gruppo di esperti del Policlinico di Milano oggi sappiamo che è possibile allargare questa risicata finestra temporale e portarla a oltre 30 ore. Si tratta di un primato a livello mondiale, ottenuto combinando le classiche tecniche di raffreddamento a procedure per “ricondizionare” e preservare l’organo. Questo potenzialmente apre a una nuova via per candidare sempre più organi al trapianto, accorciando di conseguenza anche le liste d’attesa per i pazienti.
Il nuovo percorso per “allungare” la vita dell’organo da trapiantare è stato applicato ad un giovane paziente colpito da una insufficienza respiratoria terminale legata alla fibrosi cistica. Lo scorso febbraio il paziente ha ricevuto due nuovi polmoni. Un intervento chirurgico di per sé usuale. La vera particolarità è contenuta in due fattori strettamente connessi: il primo è che il donatore, un uomo cinquantenne, era “a cuore non battente di tipo non-controllato o inatteso”, una modalità che in Italia è ancora poco utilizzata; il secondo è che i polmoni non potevano essere trapiantati subito e questo ha costretto gli specialisti ad una corsa contro il tempo per evitare che si deteriorassero. Il successo è stato possibile grazie alla combinazione di tecniche per la preservazione e il ricondizionamento dell’organo, che hanno permesso di triplicare la resistenza dei polmoni fuori dal corpo del donatore nell’attesa di essere trapiantati.
C’è una pietanza che non dovrebbe mai mancare sulle nostre tavole, specialmente in quelle dove si servono gli anziani: sono i funghi. Consumarne, infatti, 300 grammi o più settimana potrebbe aiutarci a mantenere giovane il nostro cervello. Più precisamente, mangiarli abitualmente ridurrebbe oltre il 50 per cento il rischio di sviluppare un disturbo cognitivo minore, ovvero una forma di lieve declino mentale che, in alcuni casi, può evolvere in Azheimer. A suggerire questa gustosa strategia per combattere l’invecchiamento del cervello è uno studio della National University of Singapore, pubblicato sul Journal of Alzheimer's Disease.
Il deterioramento cognitivo lieve rappresenta una sindrome neurologica che fa riferimento ad un declino cognitivo superiore a quanto previsto per età e livello di istruzione di un individuo, ma che lascia preservate le principali attività della vita quotidiana. Di conseguenza può essere inteso come una fase intermedia tra il normale invecchiamento e la demenza vera e propria. Colpisce generalmente dai 60 anni d’età in poi con un’incidenza che può raggiungere il 25,2 per cento nella fascia di età 80-84 anni.
Un solo bersaglio per colpire una moltitudine di virus, anche quelli più letali. E’ la nuova strategia sviluppata dall’Istituto di genetica molecolare del Consiglio nazionale delle ricerche di Pavia e dall’Università di Siena in uno studio pubblicato sul Journal of Medicinal Chemistry. I ricercatori hanno messo a punto una nuova famiglia di inibitori dell'enzima cellulare DDX3X, che si è dimostrato in grado di bloccare la replicazione del virus West Nile in cellule umane, senza danneggiare le cellule sane.
“Il virus di West Nile è trasmesso da zanzare presenti nel nostro paese, ed è responsabile in Italia di numerose infezioni ogni anno, anche con complicanze neurologiche gravi”, spiega Giovanni Maga dell’Igm-Cnr. “Inoltre questo virus infetta ogni anno milioni di persone in tutto il mondo. Ad oggi - continua - non esistono farmaci per combatterlo”. La maggior parte delle persone infette non mostra alcun sintomo. Fra i casi sintomatici, circa il 20% presenta sintomi leggeri: febbre, mal di testa, nausea, vomito, linfonodi ingrossati, sfoghi cutanei. Questi sintomi possono durare pochi giorni, in rari casi qualche settimana, e possono variare molto a seconda dell’età della persona. Nei bambini è più frequente una febbre leggera, nei giovani la sintomatologia è caratterizzata da febbre mediamente alta, arrossamento degli occhi, mal di testa e dolori muscolari. Negli anziani e nelle persone debilitate, invece, la sintomatologia può essere più grave. Non esiste una terapia specifica per la febbre West Nile.
Abbuffate di alcol per divertirsi e sballarsi. E’ una moda pericolosissima, sempre più diffusa tra i giovani, che non mette solo a rischio il cuore, ma anche i reni. A lanciare l’allarme sono stati gli esperti che si sono riuniti la settimana scorsa a Roma in occasione del congresso di Cardionefrologia. “L’eccesso di bevande alcoliche, specialmente consumate in quantità è un noto fattore di rischio di insufficienza renale”, spiega Luca di Lullo, dirigente medico presso l’U.O.C. Nefrologia e Dialisi dell’Ospedale “L. Parodi – Delfino” di Colleferro (Roma) e responsabile scientifico dell’evento. “E il danno può facilmente diventare cronico anche in considerazione del fatto che le malattie renali sono silenti sino agli stadi più gravi”, aggiunge.
Il binge drinking è diventata una sorta di consuetudine tra i giovanissimi e i giovani, sino ai 24 anni d'età. E quasi sempre non conoscono i rischi che conoscono. “Tra i vari comportamenti, quello che preoccupa maggiormente la popolazione dei nefrologi - spiega di Lullo - sono i nuovi modelli del consumo di alcol diffusi tra i giovani, con in testa il cosiddetto ‘binge drinking’: le ‘abbuffate’ di alcol del fine settimana. Sei o più bicchieri assunti in una sola serata per cercare lo ‘sballo’ e la perdita di controllo ma trovando talora stati di intossicazione alcolica (più precisamente un consumo pari mediamente a 60 grammi di alcol, 5-6 Unità Alcoliche (UA) in cui una UA equivale a 12 grammi di alcol puro)”.
Il rimedio contri i malanni dell’invecchiamento maschile si potrebbe celare in un semplice fagiolo. Più precisamente in un estratto, utilizzato da un gruppo di ricercatori dell’Università di Padova per creare un nuovo prodotto in grado di curare i sintomi dell'andropausa. Si tratta di un nuovo principio nutraceutico che si è dimostrato capace di contrastare il calo del testosterone, l’osteoporosi e la sindrome metabolica, tutti disturbi a cui gli uomini sono esposti dopo gli “anta”. L’annuncio è stato dato durante il trentaquattresimo convegno di Medicina della Riproduzione che si è tenuto qualche settimana fa ad Abano Terme, nel Padovano.
Dopo otto anni di duro lavoro, i ricercatori padovani hanno dimostrato che l’osteocalcina, proteina prodotta dall’osso ha una influenza positiva su molte strutture dell’organismo. “In particolare stimola la produzione di testosterone – spiega Carlo Foresta, docente dell’ateneo padovano che ha coordinato lo studio – ma anche l’attivazione della vitamina D, aumenta il rilascio di insulina e persino la sensibilità periferica all’insulina stessa, concorrendo a limitare e a curare gli effetti della sindrome metabolica”. I ricercatori, studiando il recettore attraverso il quale l’osteocalcina determina questi effetti, hanno isolato la piccola porzione della proteina (appena 21 amminoacidi) che interagisce ed attiva i meccanismi recettoriali. Questa scoperta ha consentito di sintetizzare in laboratorio il peptide attivante che è risultato essere in grado di determinare gli stessi effetti dell’osteocalcina sull’osso, sulla secrezione di insulina, sulle cellule adipose e sulla produzione di testosterone.
Se la salute degli anziani è generalmente più fragile la colpa potrebbe celarsi in una sorta di “guasto” nel midollo osseo, che in futuro potrebbe essere “riparato”. A indagare su questa affascinante ipotesi è uno studio della Fondazione MultiMedica, descritto nel corso del convegno “L’anziano fragile: dai meccanismi molecolari alla presa in carico clinica”, che si è tenuto qualche giorno fa presso l’IRCCS MultiMedica di Sesto San Giovanni. In particolare, i ricercatori intendono dimostrare che la fragilità dell’anziano dipende la disfunzione delle cellule rigenerative contenute nel midollo osseo e che il processo potrebbe essere reversibile: con adeguati interventi nutrizionali e di esercizio fisico, le cellule riparative potrebbero tornare ad aumentare, indicando un recupero della funzionalità midollare.
Oggi in Europa i 65enni rappresentano il 16 per cento della popolazione. Si stima diventeranno il 22 per cento entro il 2031, che corrisponde a circa 137 milioni di persone. Il progressivo invecchiamento della popolazione è un fenomeno demografico che preoccupa, a causa dell’aumento atteso di malattie legate alla terza età. Ma anche molti anziani “sani” sono spesso fuori forma, non autosufficienti e incapaci di far fronte ai cambiamenti della vita e allo stress, sperimentando la cosiddetta “sindrome della fragilità geriatrica”, un decadimento funzionale e cognitivo che contribuisce ad aumentare il rischio di malattia e di morte, e che finisce con l’assorbire un’ampia fetta di risorse del sistema sanitario nazionale. I meccanismi alla base di questa condizione, che affligge il 15% degli over 65 italiani, sono ancora avvolti da molta incertezza. L’ipotesi al vaglio dallo studio della Fondazione MultiMedica Onlus, con il supporto di Fondazione Cariplo, è che un midollo osseo “guasto”, in cui le cellule riparative non funzionano più come dovrebbero, sia la causa della fragilità e quindi di un invecchiamento in qualche modo accelerato.
Ogni 10 minuti una donna muore a causa di un problema al cuore. Eppure, la stragrande maggioranza ignora che le malattie cardiovascolari sono il killer numero uno del gentil sesso, nonostante gli esperti concordino che l’80 per cento degli eventi cardiaci potrebbe essere prevenuto. Per sensibilizzare le donne alla cura del cuore è stata lanciata la campagna di informazione “Vivi con il Cuore”, promossa dalla Società italiana di cardiologia (Sic).
Nel frattempo il Centro Cardiologico Monzino ha annunciato i dati dei primi due anni di attività di Monzino Women, il progetto dedicato alla prevenzione cardiovascolare nella donna. Dai risultati si evince che almeno una su quattro ha un rischio cardiovascolare elevato.
Ai fattori di rischio più noti, come colesterolo, fumo, ipertensione, diabete, obesità, si aggiungono livelli preoccupanti di depressione, ansia, stress, che a loro volta innalzano ulteriormente il pericolo di andare incontro a un evento cardiovascolare; troppo spesso senza che la donna lo sappia. “In due anni abbiamo seguito 320 donne, tutte senza sintomi evidenti, né precedenti eventi cardiovascolari, con un’età media di 50 anni: nel 25 per cento dei casi lo screening ha rilevato un profilo di rischio medio-alto, tale da rendere necessario ricorrere a una terapia o a correzioni di stile di vita”, dichiara Daniela Trabattoni, responsabile di Monzino Women. “I dati evidenziano un quadro che merita tutta la nostra attenzione: 63 donne - pari al 20 per cento del totale - sono state indirizzate a una terapia soprattutto per abbassare il colesterolo, normalizzare i livelli pressori o ridurre l’omocisteina, un indice infiammatorio indicatore di sviluppo di malattia aterosclerotica, che si rileva con semplici esami del sangue e si normalizza con una cura a base di vitamina B e acido folico”, aggiunge.
La salute del cuore però è anche una questione di mente. “La nostra Unità di Psicocardiologia ha evidenziato nel 10 per cento delle donne che si sono rivolte a Monzino Women livelli di depressione, ansia e stress così elevati da aggravare il loro profilo di rischio cardiovascolare; in questi casi le donne sono state indirizzate verso una terapia psicologica e/o farmacologica”, dice Trabattoni. “La nostra esperienza indica l’aspetto psicologico come il fattore di rischio cardiovascolare maggiormente in crescita nel mondo femminile e non è problema secondario”, aggiunge. Diversi studi dimostrano infatti che stress, ansia, depressione sono un pericolo maggiore per le donne rispetto agli uomini: i vasi periferici femminili in condizioni di stress prolungato, invece di dilatarsi e consentire un maggiore afflusso di sangue al cuore, si restringono ostacolando il flusso sanguigno e ciò si traduce in un maggiore rischio di ischemia e infarto.
Nel 5 per cento delle donne visitate, infine, è stata riscontrata una malattia già in atto: coronaropatia, patologia carotidea o aritmia, che sono state curate. “Un dato da non sottovalutare, se consideriamo che stiamo parlando di donne che credevano di stare bene”, sottolinea Trabattoni. “Del resto, abituate a sopportare il dolore e a pensare, erroneamente, che la malattia cardiovascolare sia più un problema maschile, le donne troppo spesso si trascurano e arrivano dal cardiologo troppo tardi”, conclude.
C’è uno strettissimo legame tra il diabete e il mal di schiena. Uno studio dell’Università di Sidney ha scoperto infatti che coloro che hanno il diabete hanno maggiori probabilità di soffrire di mal di schiena e dolore al collo. I risultati, pubblicati sulla rivista Plos One, suggeriscono la necessità di nuove ricerche che abbiano lo scopo di verificare le origini di questa associazione.
Il mal di schiena affligge milioni di persone in Italia e nel mondo. Circa la metà delle persone adulte prova tale dolore almeno una volta nella vita. Il mal di schiena colpisce soprattutto le persone dopo i 40 anni e maggiormente il sesso femminile. Il diabete è, invece, una condizione cronica sempre più diffusa, che si stima colpisca oltre 425 milioni nel mondo, 52 milioni in Europa, 5 milioni in Italia. Nel corso dello studio i ricercatori australiani hanno esaminato i risultati di otto indagini precedenti, che avevano analizzato la relazione tra il diabete di tipo 1 o di tipo 2 con il mal di schiena e il dolore al collo. Al termine dell’analisi, hanno scoperto che le persone affette da diabete correrebbero un rischio maggiore del 35 per cento di soffrire di lombalgia e un pericolo più alto del 24 per cento di soffrire di dolore al collo rispetto ai non diabetici.
Non sono solo nemici della fertilità e della virilità dell’uomo. Ma sono anche pericolosi per la salute riproduttiva della donna. I composti perfluorurati (Pfas), sostanze chimiche di sintesi che vengono utilizzate per rendere resistenti ai grassi e all’acqua tessuti, carta, rivestimenti per contenitori di alimenti, interferiscono con la funzione del progesterone, l’ormone femminile che regola la funzione dell’utero. Di conseguenza potrebbero contribuire allo sviluppo di patologie riproduttive femminili, come alterazioni del ciclo mestruale, endometriosi e aborti, nati pre-termine e sottopeso. A questo risultato allarmante, considerato ad esempio che i Pfas hanno contaminato le falde acquifere di diverse zone del Veneto, è giunto il gruppo di ricerca dell’Università di Padova, coordinato da Carlo Foresta e da Andrea Di Nisio.
Quattro mesi fa era stata diffusa la prima scoperta del gruppo padovano, quella che definiva il meccanismo attraverso il quale i Pfas alterano lo sviluppo del sistema uro-genitale del maschio e la fertilità interferendo con l’attività del testosterone. Sostanzialmente, l’organismo li scambia per ormoni: inevitabilmente mutano l’azione delle ghiandole endocrine, causando una serie di malattie. Dopo quella pubblicazione sul Journal of Clinical Endocrinology and Metabolism, ora i ricercatori annunciano che neanche le donne sono al sicuro dai Pfas. Ci sono voluti due anni di lavoro per valutare l’effetto di queste sostanze chimiche sul progesterone in cellule endometriali in vitro. Così i ricercatori hanno dimostrato che, su più di 20mila geni analizzati, il progesterone normalmente ne attiva quasi 300, ma in presenza di Pfas 127 vengono alterati e tra questi quelli che preparano l’utero all’attecchimento dell’embrione e quindi alla fertilità.
Sia che la si assuma tramite il fumo delle sigarette tradizionali che attraverso i vapori delle sigarette elettroniche, la nicotina può essere considerata come una sorta di cavallo di Troia della cannabis. Uno studio dell’Istituto di neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche di Milano, in collaborazione il Dipartimento Biometra delle Università degli Studi di Milano e di Modena-Reggio Emilia, a cui hanno preso parte anche ricercatori finanziati dalla Fondazione Zardi-Gori, ha scoperto che il consumo di nicotina è davvero predittivo per il futuro consumo di cannabis perché ne aumenta la gratificazione. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista European Neuropsychopharmacology.
“Tabacco e marijuana sono le sostanze usate più comunemente dagli adolescenti a scopo ricreativo, spesso in associazione tra loro, e la frequenza dell’uso della seconda è associata alla dipendenza da nicotina, la principale sostanza d’abuso presente nel tabacco”, dice Cecilia Gotti dell’Istituto di neuroscienze del Cnr. “Inoltre, il lavorosperimentale dei coniugi Eric (già vincitore del premio Nobel) e Denise Kandel del Department of Neuroscience, della Columbia University NY, ha posto le basi molecolari per capire come la nicotina possa abbassare la soglia per la dipendenza da altre sostanze, come marijuana e cocaina (cosiddetto effetto gateway)”, aggiunge.
Essere mattinieri conviene più che essere “animali notturni”. Le “allodole”, coloro che vanno a letto presto e che si svegliano alle prime luci dell’alba, vantano performance mentali migliori. Rispetto ai “gufi”, quelli che la mattina faticano a svegliarsi e la sera vanno a letto tardi, i mattinieri fanno meglio a scuola e a lavoro. Questo perché il cervello delle “allodole” funziona meglio di quello dei “gufi”. A dimostrarlo, per la prima volta, è stato uno studio della University of Birmingham (Regno Unito) in uno studio pubblicato sulla rivista Sleep.
I risultati mostrano che le persone che amano fare le ore piccole tendono ad avere minori connessioni nervose tra le regioni neurali legate allo stato di coscienza, alla soglia di attenzione, ai tempi di reazione. E tendono ad avvertire maggiore sonnolenza durante il giorno.
Che la memoria e la capacità di ragionamento rallentassero naturalmente con l’avanzare dell’età era noto già da tempo, ma ora gli scienziati hanno scoperto che la depressione può contribuire ad accelerare questo inevitabile processo.
Un gruppo di ricercatori della Yale University ha utilizzato una nuova tecnica di scansione cerebrale per dimostrare che la densità sinaptica, ovvero la quantità di connessioni nel cervello, inizia a diminuire con 10 anni di anticipo nelle persone depresse. In sostanza, se in assenza di depressione il cervello inizia a invecchiare a 50 anni d’età, in presenza della malattia si comincia a 40. Con conseguenze significative sulla qualità della vita.
Janet Osborne, 80 anni, di Oxford, è diventata la prima persona al mondo ad essere sottoposta a una terapia genica con lo scopo di fermare la forma più comune di cecità nel mondo occidentale, la degenerazione maculare senile. Alla donna è stato iniettato un gene sintetico nella parte posteriore dell’occhio per impedire alle cellule di morire. Si tratta del primo trattamento mirato per colpire la causa genetica alla base della degenerazione maculare legata all'età.
Ascoltare la musica in cuffia non è così innocuo come molti possono immaginare. Anzi, potrebbe essere una delle principali cause che sta portando molti giovani e giovanissimi a subire gravi danni all’udito. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e l’International telecommunication union (Uti), circa la metà delle persone di età compresa tra i 12 e i 35 anni d’età rischia l’udito. Sono oltre un miliardo di giovani. Troppi. Talmente tanti che l’Oms e l’Itu hanno emesso un nuovo standard internazionale per la produzione e l’uso di dispositivi come smartphone e lettori audio, in modo da renderli più sicuri per l'ascolto. E lo hanno annunciato in vista della Giornata mondiale dell’udito, che si celebra ogni anno il 3 marzo, con lo scopo di sensibilizzare alla prevenzione della sordità e ai problemi di udito, promuovendo la salute dell’orecchio.