Uno studio italiano ha individuato in un batterio l'origine di gran parte dei casi di diabete mellito di tipo 1.Secondo i ricercatori dell'ateneo di Sassari, il Mycobacterium avium paratuberculosis (MAP), a cui già si attribuisce la responsabilità dei casi di malattia di Crohn e di sindrome dell'intestino irritabile, spiegherebbe il 70% dei casi di diabete osservati in Sardegna e in Gran Bretagna e il 40% dei casi in Lombardia. "Sta emergendo che - spiega Leonardo Sechi, docente di Microbiologia dell'Università di Sassari - a seconda della predisposizione genetica dei pazienti, una persona incontrando il MAP sviluppa il diabete, un'altra l'intestino irritabile e un'altra ancora il Crohn. Nei diabetici in cui non sia presente il MAP i responsabili sono probabilmente altri patogeni intestinali". Questo particolare tipo di batterio, che vive all'interno delle cellule che infetta e ha una lunghissima incubazione, viene trasmesso ai bambini con il latte: lo si può trovare infatti nel latte in polvere per neonati, in quello materno (se la madre è infetta) e nei latticini provenienti da animali infetti, ed è persino in grado di resistere alla pastorizzazione.
Secondo "Health Search/Italia, come stai?", il progetto di rilevazione epidemiologica della Società Italiana di Medicina Generale, nel periodo di picco dell'influenza stagionale il consumo di farmaci, in particolare antibiotici, è cresciuto del 14%.I virus influenzali hanno colpito ben 400mila italiani e altrettante sono le persone colpite da malattie respiratorie acute, aumentano i ricoveri ospedalieri correlati a patologie influenzali e le visite domiciliari da parte dei medici di famiglia. Dagli ultimi dati risulta che il virus influenzale è sempre più diffuso e le malattie respiratorie simili all'influenza stanno avanzando. Nell'ultimo mese di rilevazione l'incidenza è aumentata in maniera costante, passando dai 2,1 casi ogni mille pazienti della prima metà di dicembre 2008 ai 7,7 casi della metà di gennaio 2009. Quasi un paziente su tre ha ricevuto un ciclo di antibiotico in seguito a una complicanza batterica conseguente a influenza o a una malattia respiratoria acuta.
È stato osservato che internet viene molto usato da categorie particolari di pazienti sia per reperire informazioni sia per comunicare con chi ha lo stesso problema di salute.Si formano così comunità virtuali che diventano uno strumento valido anche per programmi di supporto a soggetti per esempio con lombalgia, malattie cardiache o respiratorie e diabete. È stato monitorato l'uso di questi siti da pazienti colpiti da psoriasi, coinvolgendo 260 partecipanti in cinque gruppi online di questo genere. Le persone coinvolte avevano da 18 a 75 anni e nel 70% dei casi la psoriasi era da moderata a grave. Le azioni eseguite online più di frequente sono state l'invio di messaggi e la ricerca di informazioni, 65% e 63% rispettivamente. Metà dei partecipanti ha riferito la percezione di un miglioramento della qualità di vita, il 41% di un cambiamento in positivo della gravità della psoriasi e tre quarti ha indicato l'anonimato come un aspetto importante dell'interazione online. Il fatto stesso di relazionarsi con altri scrivendo dei propri problemi è dunque probabilmente d'aiuto contro il senso di depressione e solitudine che può accompagnarsi a questa patologia.
Da tempo gli esperti consigliano di consumare 5 porzioni al giorno di frutta, ortaggi e loro derivati. In particolare con l'avanzamento dell'età: "Per coloro che raggiungono la terza o la quarta età, è ancora più importante seguire un'alimentazione variata ed equilibrata - dice Gianni Tomassi, Professore di Scienze dell'Alimentazione e Direttore Scientifico della Fondazione per lo Studio dell'Alimentazione e della Nutrizione - che deve comprendere frutta e ortaggi di stagione, ricchi oltre che di fibra, minerali e vitamine, di sostanze ad attività protettiva antiossidante". Tra queste ultime rientra il licopene, un potente antiossidante, contenuto nei pomodori, che svolge la funzione di difesa naturale contro l'invecchiamento e se assunto regolarmente con l'alimentazione protegge le cellule contrastando l'attività ossidativa dei radicali liberi. La sostanza è presente in quantità 10 volte superiore nel concentrato di pomodoro e una recente indagine ha evidenziato una correlazione tra gli anziani in buona salute e il consumo quasi giornaliero di prodotti a base di pomodoro. L'80% degli intervistati dichiarava di sentirsi in buona salute e il 62% ne faceva un consumo abituale. Inoltre, è stato osservato che il 77,7% degli intervistati consuma concentrato di pomodoro con una frequenza compresa tra 1 e 3 volte la settimana e, di questi, l'85,6% si ritiene in stato di buona salute.
Secondo i ricercatori dell'Università di Heriot-Watt di Edimburgo (Scozia) basterebbero tre minuti di sport due volte a settimana per migliorare il metabolismoe contrastare il diabete. "Quel che abbiamo trovato - spiega James Timmons, coordinatore dello studio - è che anche svolgendo pochi, ma intensi esercizi, della durata di 30 secondi circa ciascuno per una serie di tre minuti, si migliora sensibilmente il metabolismo in sole due settimane". Le attuali linee guida, invece, suggeriscono tabelle di marcia da stakhanovista, ovvero attività fisica aerobica da moderata a intensa per molte ore alla settimana. La ricerca è stata condotta su un gruppo di 16 giovani uomini, piuttosto fuori forma, ma sostanzialmente sani, sottoposti a quattro sessioni di cyclette da 30 secondi ciascuna, diluite nell'arco della giornata, due volte alla settimana. Dopo 15 giorni è stato riscontrato un miglioramento del 23% nell'efficacia con cui il loro organismo impiegava l'insulina per assorbire il glucosio nel sangue. "Un risultato - assicura Timmons - non molto diverso da quello ottenibile allenandosi duramente per ore e ore ogni settimana".
I ricercatori dell'European Molecular Biology Laboratory e dell'Università Joseph Fournier (Francia) hanno scoperto il meccanismo chiave grazie al quale il virus dell'influenza stagionale penetra nelle celluleumane. Hanno studiato in particolare l'attività della polimerasi virale, enzima che catalizza la replicazione del DNA virale, sottraendo una piccola porzione, o cappuccio (cap) alle molecole di RNA dell'ospite, attaccandola alle proprie. I ricercatori del gruppo di Rob Ruigrok e Stephen Cusack hanno ora scoperto che la parte della subunità chiamata PA è responsabile del taglio del cappuccio dell'mRNA dell'ospite. Questi risultati aprono la strada a nuovi farmaci mirati: proprio il PA potrebbe diventare, infatti, un bersaglio promettente per nuovi antivirali. Agendo su questa parte della polimerasi, spiegano gli autori, si potrebbe bloccare l'infezione, perchè il virus non sarebbe più in grado di moltiplicarsi.
Negli ormoni delle donne in gravidanza è possibile individuare il profilo di rischio di depressione post-partoche colpisce il 10-15% delle puerpere, e spesso colpisce donne che hanno subito eventi stressanti o luttuosi nei nove mesi, o sperimentano una bassa autostima, ansia o stress in gravidanza. Secondo gli autori di una ricerca, condotta su 100 future mamme, i livelli di CRH, ormone di liberazione della corticotropina, misurati a 25 settimane di gravidanza possono predire fino a tre quarti dei casi. Dopo il parto i livelli di CRH crollano drammaticamente portando di conseguenza anche a un calo del cortisolo, l'ormone che aiuta l'organismo a fronteggiare lo stress. Nelle donne in cui in gravidanza i livelli del CRH sono più alti, il crollo del cortisolo sarà più pronunciato e difficile da gestire senza contraccolpi. Se la scoperta verrà confermata permetterebbe, con un semplice test di dosaggio ormonale, di fare uno screening della depressione post-parto.
La quantità di vitamina D che si produce, durante la gravidanza, grazie all'esposizione alla luce del sole migliora lo sviluppo del nascituro.Secondo gli autori di uno studio condotto presso l'Università di Bristol, in Gran Bretagna, partorire a fine estate o all'inizio dell'autunno garantisce una maggior esposizione della mamma al sole durante le ultime fasi della gravidanza e quindi un aumento dei livelli di vitamina D. Il riscontro è stato ottenuto valutando la corporatura fisica e la data di nascita su un campione di circa 7mila giovani: i soggetti venuti alla luce in quel periodo dell'anno erano di maggior statura e di maggior robustezza nella struttura ossea, rispetto a coloro che erano nati durante l'inverno o in primavera.
L'eccesso di sonno e la sua mancanza (insonnia) sono accomunati dallo stesso meccanismo d'azione tramite cui diventano fattori di rischio di malattie.In entrambi i casi aumentano i livelli ematici di citochine, sostanze pro-infiammatorie. Lo hanno verificato i ricercatori della Case Western Reserve University di Cleveland, in Ohio, monitorando 614 persone già reclutate nel Cleveland Family Study. Oltre alla compilazione di un questionario sulle proprie abitudini di sonno, i soggetti sono stati sottoposti al controllo del sonno mediante polisonnografia. È stato osservato che ogni ora in più di sonno dichiarata si traduceva in un aumento dell'8% nei livelli ematici di proteina C-reattiva e in un +7% nei livelli di interleuchina-6 (entrambe legate al rischio di problemi cardiaci e diabete). Inoltre, ogni ora di sonno in meno registrata tramite polisonnografia si associava a un aumento dell'8% nei livelli di tumor necrosis factor-alfa, un'altra citochina pro-infiammatoria. Secondo gli autori, i due metodi di misurazione della durata del sonno potrebbero essere influenzati in modo diverso dallo stress e dall'umore, che hanno un effetto diretto sui livelli di citochine.
Nei pazienti che presentano diabete di tipo 2 e altri fattori di rischio cardiovascolare, l'aumento dei livelli di emoglobina glicata (HbA1c) può comportare una caduta della funzionalità cognitiva.Non è ancora chiaro se la diminuzione della glicemia possa o meno migliorare la funzionalità cognitiva, ma non è la prima volta che il diabete viene messo in correlazione con il declino cognitivo e la demenza. Tuttavia finora non era chiara la misura in cui l'aumento della glicemia avesse un impatto sulla sfera cognitiva. I risultati ottenuti portano anche a sollevare un'ipotesi secondo cui strategie volte a diminuire i livelli di HbA1c o prevenire il loro aumento possano influenzare favorevolmente la funzionalità cognitiva.
Alcuni ricercatori statunitensi hanno analizzato parti del codice genetico dei diversi ceppi conosciuti di Rhinovirus, il responsabile di infezioni respiratorie soprattutto stagionali. Sono riusciti così a completare le sequenze genetiche dei virus, costituendo una sorta di albero genealogico che svela i legami e le differenze tra i diversi ceppi. La scoperta, pubblicata su Science, è firmata dai ricercatori dell'Università del Maryland a Baltimora e dell'ateneo del Wesconsin-Madison. Il quadro tracciato dalle èquipe contribuirà allo sviluppo di trattamenti davvero mirati ed efficaci contro il raffreddore. I Rhinovirus umani sono organizzati in 15 piccoli gruppi che provengono da lontani antenati. E anche questi virus, a differenza di quanto si riteneva, si combinano fra loro dando vita a nuovi ceppi. Questo processo avviene rapidamente durante l'inverno, quando differenti tipi di Rhinovirus aggrediscono la stessa persona causando infezioni, ma ricombinandosi anche in nuovi agenti infettivi.
Secondo due studi nazionali, in Italia l'ipercolesterolemia non è controllata in modo adeguato e ne soffre circa un italiano su quattrotra i 37 e i 74 anni. Eppure, molti non seguono alcuna terapia con farmaci. Lo sostengono gli esperti che, sulla base dei dati raccolti, segnalano che il 25% degli italiani con più di 37 anni ha livelli di colesterolo alti, con una maggiore prevalenza nelle donne. Tuttavia l'84% delle donne e l'81% degli uomini non si curano con appropriatezza e, rispettivamente, il 10% e il 14% non affrontano il problema come dovrebbero. Inoltre, estendendo l'analisi anche a chi presenta livelli al limite della norma, la quota di italiani a rischio di ipercolesterolemia sale al 36% tra le donne e al 33% tra gli uomini. "La malattia - sottolinea Carlo Maria Rotella, ordinario di endocrinologia all'Università di Firenze - può diventare ancora più pericolosa quando si allea con altri fattori di rischio o con patologie cardiovascolari". L'ipercolesterolemia, ad esempio, assume contorni drammatici quando non è controllata in pazienti che hanno avuto un infarto o che sono cardiopatici.
Un'indagine condotta da Gfk Eurisko ha verificato che i pazienti colpiti da diabete vengono curati meglio se vivono in coppia e se ad assisterli è un familiare, donna in 6 casi su 10. Insieme, infatti, riescono a gestire meglio la terapia con benefici dichiarati dal 90% dei pazienti. L'indagine ha coinvolto 900 malati di diabete e 100 caregiver che li assistono, rilevando che, quando ha accanto il proprio partner, il paziente sta meglio clinicamente e psicologicamente: è più soddisfatto di se stesso e della sua vita (il doppio rispetto a chi lotta da solo), è meno ansioso (68% degli accoppiati contro il 64% dei single) ed è più attivo (63% contro 56%). Il 76% dei malati fiancheggiati da un caregiver si ricorda sempre di assumere i farmaci; il 72% segue una dieta che nel 74% dei casi viene adottata anche da tutta la famiglia; il 55% pratica attività fisica e il 50% viene accompagnato dal suo assistente alle visite di controllo. In generale, combattere la malattia in due permette al paziente di trovare risposte ai suoi bisogni. Fra le necessità più urgenti degli intervistati c'è quella di avere un sostegno nell'elaborazione della diagnosi e di essere motivati in modo da poter guardare al futuro con ottimismo.
Una ricerca americana ha dimostrato che soldati che agiscono correttamente in situazioni di forte stress hanno nel sangue una quantità maggiore di un neurotrasmettitore che riduce la paura.La scoperta, presentata al congresso dell'American Association for the Advancement of Science, apre prospettive verso farmaci o terapie in grado di diminuire l'ansia nelle persone che ne soffrono in condizioni di forte pressione psicologica. "Ci sono alcune persone che semplicemente non si stressano - assicura Deane Aikins, della Yale University di New Haven, Connecticut - e questo perchè il loro ormone dello stress, il cortisolo, è presente in quantità minore". Ma studiando un gruppo di soldati impegnati in esercitazioni e prove di sopravvivenza, gli esperti si sono resi conto che, oltre ad avere meno cortisolo nel sangue, gli uomini più coraggiosi avevano anche quantità maggiori di un neuropeptide detto y, che impedisce loro di cadere nel panico. Aikins e i suoi colleghi stanno ora studiando come poter applicare questa scoperta alla gente comune, e questo potrebbe avvenire non solo sviluppando un farmaco ad hoc, ma anche elaborando speciali metodi di training autogeno, come la meditazione.
Sono state scoperte le varianti genetiche che influenzano la pressione sanguigna e aumentano il rischio di ipertensione, disturbo che può essere la causa di infarto, ictus e insufficienza renale. Nella ricerca, pubblicata su Nature Genetics, sono state isolate due varianti genetiche che influenzano la pressione sanguigna, localizzate nei geni che codificano una famiglia di proteine (peptidi natriuretici) prodotte dal cuore, quando è sotto stress, e dai vasi sanguigni. Le varianti sono state trovate dai ricercatori nel 90% delle persone analizzate e sono risultate associate a un aumento del 18% dell'incidenza di ipertensione. "Probabilmente verranno scoperti altri geni con un ruolo chiave sulla pressione sanguigna, ma le varianti genetiche individuate - spiega Christopher Newton-Cheh, autore dello studio - agiscono influenzando un meccanismo già studiato, che può essere modificato con farmaci già in fase di sviluppo. Un vantaggio non da poco".
Recenti ricerche hanno gettato nuova luce sul ruolo della vitamina D, solitamente collegata con la salute delle ossa, nel difendere da raffreddore e influenza.Lo sostiene un ampio studio effettuato negli Stati Uniti, e pubblicato sulla rivista Archives of Internal Medicine, che ha esplorato il legame fra vitamina D e infezioni delle vie respiratorie: fra i 19mila arruolati, i pazienti con i livelli più bassi risultavano avere il 40% di probabilità in più di aver subito recenti malanni di stagione. Il rischio, naturalmente, aumenta quando il paziente ha già una malattia respiratoria cronica come l'asma o l'enfisema polmonare ed è proprio per prevenire disturbi in questi malati che lo studio sarà utile. Anche se, precisano gli autori, trial clinici dovranno comunque confermare l'opportunità di raccomandare integratori di vitamina D contro i disturbi stagionali.
Le donne, in genere, sono più attente ai problemi di salute, eppure i dati dell'Istituto Superiore di Sanità e quelli della recente indagine demoscopica mostrano una preoccupante disattenzione ai problemi cardiaci. Le cardiopatie sono in aumento e rappresentano ormai la principale causa di morte anche per il sesso femminile: in Italia l'infarto del miocardio uccide 33.000 donne l'anno - il triplo dei decessi causati dal tumore al seno. Il 49% delle donne in menopausa presenta ipertensione, il 38% ha ipercolesterolemia, il 48% non fa attività fisica, il 14% fuma più di 12 sigarette al giorno, il 30% è anche obeso, il 40% è in soprappeso e il 10% soffre di diabete. Questa la fotografia dell'ISS. Inoltre, sono state rilevate alcune carenze importanti: l'80% non ha mai misurato il proprio girovita, solo il 23% misura frequentemente la pressione arteriosa, il 33% non ne conosce i livelli normali. Circa il 40% delle donne non controlla regolarmente i propri livelli di colesterolo nè quelli di glicemia a digiuno e, soprattutto, il 51% non conosce quali dovrebbero essere i valori normali di colesterolo e glicemia.
Crisi economica, stress e insonnia mettono a rischio la salute del cuore e possono diventare fattori di rischio di fibrillazione atriale."In genere, la fibrillazione atriale colpisce il 10% degli ultra 70enni. È causata da una fibrosi atriale legata all'età, ma anche all'ipertensione e agli stili di vita", spiega Alessandro Capucci, direttore della Clinica di cardiologia dell'ospedale regionale Le Torrette di Ancona. "Rappresenta l'aritimia a più alto tasso di ricoveri in ospedale per anno". Lo specialista sottolinea il peso della carenza cronica di sonno: "In generale - riflette Capucci - i ritmi della vita moderna sono diventati insostenibili per tutti. Siamo fatti per muoverci, per usare tutti i muscoli, invece siamo inchiodati alle scrivanie o alle poltroncine dei meeting. Le uniche distrazioni sono le pause caffè, troppi se sono più di cinque al giorno". Infatti, nel 15% dei casi la fibrillazione atriale non ha rapporti con alcuna cardiopatia e il 2% dei pazienti è costituito da giovani under 30 che spesso hanno una familiarità per la patologia.
Un terzo degli americani ha perso il sonno a causa della crisi economica. Lo dimostra un'indagine condotta dalla National Sleep Foundation(NSF): il numero di chi soffre di insonnia è aumentato del 13% dal 2001 e negli ultimi otto anni la percentuale di americani che dorme meno di sei ore a notte è cresciuta dal 13% al 20% e quella di coloro che riposano almeno otto ore è diminuita dal 38% al 28%. "È facile capire perchè molte persone hanno problemi a cadere nelle braccia di Morfeo - sottolinea David Cloud, direttore della NSF - dato che attualmente i problemi legati al lavoro e al proprio conto in banca stanno aumentando. Ma il sonno è essenziale per la produttività e l'attenzione quando si è in ufficio e un elemento chiave per restare in salute e, quindi, portare lo stipendio a casa". Dormire la giusta quantità di ore ogni notte consente di fare attività fisica, di adottare stili di vita sani e dunque di lavorare con regolarità e al massimo delle proprie potenzialità. Tuttavia, solo il 32% di chi soffre di insonnia si rende conto di quanto questo possa influire sulla salute e ne parla con il proprio medico. Pare che la mancanza di sonno stia creando in America un vero e proprio problema di salute pubblica: il 54% degli adulti, cioè circa 110 milioni di persone munite di patente di guida, ha dichiarato di aver guidato in carenza di sonno almeno una volta nell'ultimo anno.
È stato individuato in un gene un ulteriore fattore di rischio per l'insorgenza di patologie come l'aterosclerosi o l'ipertensione.Uno studio condotto dall'Istituto di Neurogenetica e Neurofarmacologia del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Cagliari, in collaborazione con vari gruppi internazionali, ha scoperto che il gene COL4A1 è implicato nello sviluppo di rigidità arteriosa. I volontari coinvolti nello studio sono stati sottoposti alla misurazione della velocità dell'onda di polso (Pwv), un parametro usato per approfondire lo studio della rigidità o elasticità arteriosa. "Questo ci ha permesso di identificare varianti del gene COL4A1 in associazione con la Pwv, suggerendo, per la prima volta, che l'interazione tra cellula e matrice cellulare possa esercitare un ruolo importante nella regolazione della rigidità arteriosa" spiega Serena Sann, uno degli autori della ricerca. Ulteriori e approfonditi studi saranno necessari per comprendere il meccanismo d'azione di questo gene e poter così sviluppare nuovi interventi mirati a ritardare o prevenire i rischi associati a un'accelerata rigidità delle arterie.